ROR: Ben trovati sulle frequenze di Radio Onda Rossa 87.9, in DAB a Terni e in tutto il mondo attraverso il nostro streaming. Oggi, ciclo tecnologico per Entropia Massima: estrattivismo dei dati. Abbiamo il piacere di presentarvi un libro che è appena uscito, si chiama I Popoli dell’Es. È stato presentato giusto ieri alla libreria Antigone, e oggi avremo modo di esplorarlo insieme agli autori che ci hanno raggiunto qui negli studi di via dei Volsci 56. Li salutiamo subito e diamo loro la parola. Benvenuti e benvenute.
CHIARA: Benvenuti a noi, ma anche a chi ascolta, insomma,
ciao a tutte e tutti e tuttu.
TOMMASO: Ciao a tutte e
tutti.
ROR: Chiara Buoncristiani e Tommaso Romani sono gli autori di questo libro. Lavorano come psicoanalisti a Roma.
Chiara Buoncristiani è psicoanalista e giornalista, si occupa del rapporto tra psicoanalisi, attualità e semiotica, oltre che di disturbi alimentari e delle nuove forme di sofferenza. Ha pubblicato per diverse riviste scientifiche, tra cui L’inconscio, rivista di psicoanalisi, e collabora con i siti SpiWeb, Fata Morgana e Formiche.net.
Tommaso Romani, anche lui psicoanalista e laureato in filosofia, ha lavorato per molti anni nel sociale, occupandosi di adolescenti in difficoltà. Ha pubblicato anche lui su L’inconscio e collabora con SpiWeb, Fata Morgana, e insieme a Chiara si occupa del rapporto tra corpo e linguaggio in psicoanalisi e delle mutazioni antropologiche.
I Popoli dell’Es è un libro che affronta le trasformazioni antropologiche della nostra epoca. Tra le altre cose, tratta questioni di genere, nuove sessualità e il ruolo dell’intelligenza artificiale nelle traiettorie delle soggettività contemporanee: motivo per cui li abbiamo voluti come ospiti alla nostra trasmissione odierna.
Il libro interroga la psicoanalisi ma lo fa uscendo dai suoi confini classici. Al contempo, ci aiuta a ripensare noi stessi come esseri connessi, attraversati dalle tecnologie e trasformati da esse. Non si tratta solo di diagnosi o terapie, ma di uno sguardo che si estende al cyberspazio, al piacere, alla dissociazione, alla vita, alla morte, all’amore — anche quello che passa da uno schermo.
Ormai noi tutte e tutti incorporiamo le tecnologie, soprattutto quelle fondate su algoritmi intelligenti. Cito dal libro:
“Entriamo in simbiosi per potenziare le nostre facoltà, aumentare le nostre possibilità di connetterci, lavorare e fare relazioni, superare i confini del tempo e dello spazio, divertirci, provare piacere, anestetizzarci, dissociarci dal dolore, eccitarci, sentirci vivi, sentirci morti, amare.”
Siamo ancora noi a usare le tecnologie o sono loro a usare noi?
Per affrontare una domanda di questa portata, un sapere solo non basta più. Serve un approccio multidisciplinare. Oggi proviamo a far incontrare la psicoanalisi con l’ingegneria. Non sappiamo cosa ne uscirà, ma forse sarà un bel naufragio. Un naufragio consapevole, speriamo produttivo.
Cominciamo.
PARTE 1
ROR: Allora, in questa prima parte vogliamo parlare di istituzioni digitali e apocalisse quotidiana. Già dal titolo che diamo a questa prima parte è difficile orientarsi. Viviamo connessi costantemente e il nostro tempo viene risucchiato da uno scrolling infinito, il famoso doomscrolling, che non è solo una cattiva abitudine: è un sintomo, un indice, un gesto rituale che parla di come sono cambiate le istituzioni che prima ci davano forma — la scuola, la famiglia, la chiesa — e che oggi sono state sostituite da algoritmi e feed personalizzati.
Questo è un tema che abbiamo portato in trasmissione un mesetto fa, il 19 maggio, ed eravamo arrivati alle stesse conclusioni, partendo però da un punto di vista più ingegneristico. Vediamo oggi di affrontarlo dal punto di vista psicoanalitico.
Nel libro parlate della sostituzione delle istituzioni classiche con dispositivi digitali. Quindi anche qui: dispositivi digitali è qualcosa che merita un approfondimento. In che modo le piattaforme come Instagram o TikTok sono diventate nuove madri simboliche?
CHIARA: Allora, prova a dare una risposta. Per istituzioni intendiamo un po’ la famiglia, la scuola, lo Stato, tutti quelli che noi psicoanalisti chiamiamo in un gergo un po’ tecnico i garanti metapsicologici, che sarebbero quei punti di riferimento che ci consentono di orientarci.
Abbiamo visto che in quest’ultimo periodo — e non l’abbiamo scoperto noi psicoanalisti, lo vediamo tutti i giorni — l’autorevolezza di queste istituzioni si va via via sfilacciando. Se guardiamo ai giovani, ai ragazzini dai dieci anni, ma forse anche prima, fino a noi adulti, il punto di riferimento sta diventando un altro: il digitale.
Il metro con cui io mi paragono non è più quello che mi dice il parroco o il professore. Magari è anche quello che può dirmi un’istituzione, ma diventa molto di più — e costantemente — quello che io vedo su Internet, quello che io vedo scrollando.
E questo perché? Intanto, perché le istituzioni — c’è una scrittrice, una teorica queer che si chiama Judith Butler — funzionano attraverso la performatività. Cioè, è la ripetizione del fatto che io in qualche modo mi autodefinisco e sono definita dagli altri (la Chiesa, lo Stato), e questa ripetizione è ciò che fonda il mio potere di dare regole.
La ripetizione dello scrolling, la ripetizione di tutte queste immagini, sono performance che noi costantemente compiamo su noi stessi. E quindi, a livello inconscio, passa l’autorevolezza. Oltre, ovviamente, a un modellamento: io guardo me stessa e mi chiedo quanto somiglio o non somiglio alla ragazzina di TikTok che fa quel video, quanto somiglio a quell’influencer, banalmente.
TOMMASO: E forse c’è anche un’altra entrata rispetto a questi dispositivi, alle traiettorie di soggettivazione e ai piani di autorevolezza che questi comportano. Ad esempio, mentre parlava Chiara, mi veniva in mente che dalle stanze d’analisi si sentono sempre più spesso storie — soprattutto da adolescenti — di ragazzine e ragazzini che hanno una loro questione, un loro interrogativo. Mentre un po’ di tempo fa i riferimenti potevano essere quelli che diceva Chiara prima — chiedere ai genitori, a scuola, al gruppo d’amici — ora ascoltiamo come questi dispositivi precedenti stiano tramontando rispetto all’autorevolezza che ha, per esempio, una ricerca su Internet.
Oggi tantissimo viene chiesto all’intelligenza artificiale. Per cui è facile sentire una ragazzina o un ragazzino dire al genitore: “Ma tu che ne sai? L’ho letto su Internet. L’ho cercato su Google.” O anche all’analista stesso, che è un’altra figura che ha goduto di una certa autorevolezza per un certo tempo. Lacan definiva l’analista come il soggetto supposto sapere. Oggi, quello che è sicuro è che non sai più niente, rispetto a quanto invece siano altri i soggetti supposti sapere.
Una delle questioni più interessanti, anche rispetto al tema di cui ci occupiamo qui stasera, è quanto questi nuovi dispositivi — continuiamo a chiamarli così anche se non sappiamo quanto tenga il concetto — si pongano in una zona ibrida, tra umano e non umano. Quindi non tanto un dispositivo che ci soggettivizza, ma una relazione con un non umano che è ancora tutta da scoprire.
ROR: Da sottofondo a tutto questo, non possiamo dimenticare che la nostra attenzione ha un valore economico. Diventa moneta, oltre che status sociale. È il capitalismo cognitivo, quello che chiamiamo in questa trasmissione il capitalismo della sorveglianza, dell’attenzione, dei dati.
Nel mezzo di tutto questo, siamo esposti a un sentimento apocalittico, di cui si parla nel libro. Si tratta della fine o dell’inizio di qualcosa? C’è ancora spazio per un desiderio politico dentro questa crisi cognitiva?
CHIARA: Allora, già nel significato stesso del termine: tu prima hai citato doomscrolling. Doom significa contemporaneamente rovina, apocalisse (quindi catastrofe), ma anche rivelazione. Quindi c’è una doppia uscita di questa catastrofe: da una parte, può essere un’apocalisse anche concreta; dall’altra, può essere la fine di un paradigma e l’inizio di un altro.
Che significa? Significa che qui c’è spazio per un discorso politico che faccia rientrare ciò che prima era ai margini. Se il vecchio paradigma era un paradigma in cui il potere era distribuito in modo gerarchico, c’è spazio per un potere più orizzontale?
Ti faccio l’esempio di quello che diceva prima Tommaso: il ragazzino che guarda su Google e si fida dell’autorevolezza di Google. In realtà sa benissimo — lo sappiamo tutti noi — che su Google non ci sono più “gli esperti”, non c’è più un’unica voce, ma tante versioni.
Questo ovviamente crea il rischio di neo-verità, le famose fake news, ma apre anche alla possibilità che più voci possano emergere. Non solo il comunicato stampa, ma anche voci d’opposizione. E in questo senso, il discorso politico si riapre. Tant’è vero che tanti teorici queer e degli studi di genere che guardano alle sessualità più non conformi, più marginali, fanno riferimento a questo nuovo paradigma. Quindi, sì: c’è spazio.
TOMMASO: L’Apocalisse è un tema che emerge diverse volte all’interno del libro. L’impressione che abbiamo è che questo significante faccia sempre più parte dell’immaginario di ciascuno di noi.
C’è un versante, purtroppo, molto reale, concreto, storico. Quantomeno a partire dal Covid e dalle guerre successive, questo orizzonte finale degli eventi sembra sempre più verosimile, per quello che è passato sugli schermi negli ultimi cinque anni.
Nell’immaginario, è facile pensare che rimandi a un’idea di assenza di futuro — soprattutto per le nuove generazioni. No future è qualcosa che gira già da un po’, da un lato.
Dall’altro, però, rispetto alla tua domanda — è qualcosa che finisce o qualcosa che comincia? — ci si può chiedere: che cos’è che finisce?
Forse, con un po’ di coraggio, e forse anche con un po’ di ottimismo, quello che sta finendo — o che noi viviamo come fine — è questa fase terribile, drammatica, turbolenta del capitalismo della sorveglianza, dei dati, dell’attenzione. Allora, se è questo mondo che sta finendo, ci si può anche chiedere: tutto sommato è un male?
E poi: è il mondo di chi che finisce? Perché per alcuni il mondo, ad esempio, è già finito. O sono mondi in cui alcune persone non sono mai entrate.
Non ricordo dove leggevo, rispetto proprio a questo tema dell’apocalisse, che per le popolazioni sudamericane l’apocalisse è stata l’arrivo degli spagnoli. Allora, forse viviamo una serie di apocalissi. E non tutte sono come i film di fantascienza in cui ci estinguiamo tutti.
Forse anche il concetto stesso di estinzione va un po’ rivisto. Perché, se lo consideriamo come un modo per togliere di mezzo questa fissazione dell’essere umano per la propria centralità, allora anche questo — a ben pensarci — non è del tutto negativo.
ROR: Benissimo, facciamo allora una prima pausa musicale. Ascoltiamo un brano di Heavenly: Portland Town.
ROR: E allora, torniamo in voce per questa seconda parte di Entropia Massima. Stiamo parlando del libro I Popoli dell'Es, che oggi presentiamo con gli autori.
In questa seconda parte vogliamo affrontare un po’ il tema dell’ibridazione, e anche del metodo di scrittura utilizzato dagli autori. Perché ci sia novità, bisogna mantenere insieme elementi che non si possono ridurre l’uno all’altro. Sembra essere questa una delle tesi del libro, o comunque uno dei suoi moventi.
Nel libro si insiste molto su generazioni che collidono, piani di realtà che si sovrappongono, mondi interiori e mondi digitali che non vanno pensati in opposizione ma in intreccio, in assemblaggio. Non si tratta quindi di dire “è colpa di Internet”, ma di riconoscere che quelle che a volte chiamiamo patologie sono risposte creative, adattative, a un mondo che è cambiato radicalmente.
Anche la scrittura, come gesto e come metodo, diventa quindi una pratica politica. Nel libro riportate anche il frutto della vostra relazione, delle vostre conversazioni: non in forma dialogica, ma direttamente, frasi uno dietro l’altra. E poi molti riferimenti a colleghi, o comunque a persone che hanno fatto parte della scrittura del libro e che sicuramente fanno parte dei discorsi che portate avanti.
Parlateci un po’ del metodo che avete utilizzato per scrivere, e di come questa scrittura possa avere una valenza politica.
CHIARA: Sì, diciamo che per noi, fin dall’inizio, il concetto di relazione — che in qualche modo viene prima e fonda tutto quello che esiste — è stato centrale. L’idea che tutto quello che avviene e che produce effetti sia un “tra”: un tra pensieri, un tra soggettività, è stato decisivo.
Il metodo che abbiamo utilizzato è stato quello di coinvolgere una serie di persone: psicoanalisti, antropologi, filosofi, esperti d’arte, teorici queer… È stato un viaggio molto articolato. Abbiamo composto pensando a un collettivo. Un collettivo è qualcosa di diverso dalla semplice somma: è qualcosa che ha a che fare con il legame sociale a un livello che è un po’ diverso da quello che noi psicoanalisti chiamiamo, ad esempio, il livello delle triangolazioni edipiche.
È un livello che coinvolge intensità, flussi. Nella forma ci siamo proprio chiesti che forma dare. Tu dicevi delle frasi una dietro l’altra: abbiamo usato un discorso indiretto libero, in cui ciascuno dei componenti delle varie conversazioni si toglieva un pezzetto di identità — a levare, a decostruire — per formare qualcosa di collettivo. Questo è stato un po’ il tentativo.
È emerso così un arcipelago di temi, di nuclei, di nodi che si riecheggiano l’un l’altro, con l’intenzione — anche nel nostro discorso — di non fare una costruzione sistematica, ma di produrre una serie di effetti nel lettore. Effetti che invitano a una partecipazione piuttosto attiva rispetto al senso. Cerchiamo di porci anche noi in modo simmetrico rispetto al lettore.
TOMMASO: Dunque, questa per me è una domanda molto interessante — e difficile. Voglio partire dalla scrittura. Ci stavo pensando proprio stamattina. C’è una differenza grossa, direi politica in ultima analisi, tra il parlare e lo scrivere.
Provo a spiegare: quando ascoltiamo un discorso — per esempio quelli dei politici — siamo catturati subito dal significato. L’attenzione va al senso delle parole nella frase. La scrittura invece funziona in modo opposto: è un insieme di parole da cui tu devi costruire il significato. In un certo senso, è più libera. E proprio per questo può avere una funzione politica.
Un discorso può essere finto, può avere come sfondo la persuasione. Deleuze, un filosofo a cui parte delle riflessioni del libro si riferiscono, non amava molto parlare, soprattutto in pubblico. Forse riteneva la scrittura un fatto più collettivo.
Questo aspetto collettivo è ugualmente molto presente nel libro, a partire dal fatto che è scritto da due persone — una donna e un uomo — che hanno provato a scriverlo davvero insieme. Ce lo chiedono spesso: qual è il nostro metodo? Non ci siamo rimpallati un testo, ma abbiamo cercato di scriverlo tra di noi, insieme.
La stessa operazione l’abbiamo fatta con i vari amici che hanno dialogato con noi. C’è un intero capitolo, intitolato Nexa, scritto collettivamente. Come se potessimo immaginare che nessuna soggettività è singola, individuale, ma che ogni soggettività è un collettivo.
Abbiamo provato a scrivere come se fossimo tanti collettivi, tante molteplicità che cercano di dialogare a più voci. Questo concetto, filosoficamente, è quello che Deleuze chiamava “assembramento”, “concatenamento”. Un’idea che oggi, anche dal punto di vista tecnologico, è molto interessante. Le nuove tecnologie non sono più semplici strumenti di utilizzo, forse nemmeno più solo protesi: sono qualcosa che si fonde, a un certo livello, con l’umano.
Il risultato, anche qui, è tutto da scoprire. Ma il modello epistemologico con cui cerchiamo di capirlo è quello del concatenamento.
ROR: Tra le cose che raccontate nel libro, ce n’è una che ha sicuramente attirato la mia attenzione. Raccontate di un ragazzino che, interrogato sull’uso forse eccessivo dei dispositivi digitali, risponde: “Tu non puoi capire, io vivo più vite. E le vivo tutte. Per me sono tutte valide: sia quelle nel digitale, sia quelle nel reale.”
Su questo mi piacerebbe sentire qualcosa da voi.
CHIARA: Sì, è stato molto interessante. Con due frasi, quel ragazzino dice: “Io vivo bene entrambe le vite: quella sui social e quella che vivo di persona.” In pratica, ci sta dicendo: “Le vostre categorie — dissociazione, scissione — vanno anche bene. Ma se le usate per ascoltare me, mi state classificando secondo un’ottica che rischia di non capire nulla. E di farmi del male.”
Questo ci ha indirizzato nella ricerca, e ci ha messo nella condizione di mutare anche noi. Cioè, significa pensare l’ascolto e la clinica non come qualcosa che parte da categorie prestabilite, ma come qualcosa che non ha un modello.
Non esiste più un modello del funzionamento “maturo” o “evoluto”. Esistono tante differenze. E queste differenze sono i modi in cui le persone si soggettivano. Poi è chiaro: una strategia può essere comoda, ma può anche destrutturarti, farti stare male. In quel caso, si tratta di ascoltare, aiutare, consentire ulteriori concatenamenti. Cioè, aiutare lo psichismo in formazione — che si concatena con te — a trovare vie più flessibili, più adatte, che forniscano soluzioni di benessere.
TOMMASO: Quello che dici sull’adolescente “iperconnesso” è centrale. Immaginiamolo con cuffiette alle orecchie, un telefono in mano, uno schermo davanti, mentre dialoga con l’IA, chatta con un amico, sente la canzone di un’amica… e così via, all’infinito.
È stata per noi una sorta di modello, se vogliamo, di quel concatenamento di cui parlavamo prima. E questo ci porta a una riflessione complessa dal punto di vista psicoanalitico.
Per tutto il Novecento, abbiamo pensato la psiche come un mondo interno, qualcosa di interno al soggetto. Anche se già dall’inizio la psicoanalisi ha messo in crisi l’unità del soggetto, oggi siamo di fronte a un ulteriore passaggio: immaginare lo psichico umano come molto più esteso rispetto al singolo.
Quell’immagine dell’adolescente con cuffiette e schermi potrebbe — punto interrogativo — rappresentare un nuovo modello di psichismo esteso.
Nel libro, su questo siamo abbastanza ottimisti. Pensiamo che la psicoanalisi possa assumere queste nuove categorie e lavorarci, con i suoi concetti.
ROR: È arrivato il momento di una nuova pausa musicale. Ascoltiamo il brano Dumb dei Not Not Cool.
ROR: E allora di nuovo in voce per la terza parte della puntata di Entropia Massima di oggi. Stiamo parlando del libro I Popoli dell'Es.
In quest’ultima parte vogliamo un po’ affondare all’interno dell’elemento tecnologico. Le intelligenze artificiali oggi ci somigliano, o meglio, proiettiamo su di loro ciò che ci abita. Iniziamo a parlarci, a confidare i nostri segreti, ad affezionarci. Viene da chiedersi se cominceranno ad avere dei lapsus — e quindi questo potrebbe essere un sintomo di un desiderio — ben sapendo che questo pensiero non ha alcuna rilevanza scientifica, ma agendo dentro di noi si fa comunque reale nella percezione.
Di sicuro, l’abbiamo già detto oggi, l’essere umano non è più al centro. Il soggetto si decentra, si ibrida, si fonde con le macchine, con gli algoritmi, con i media.
Nel libro c’è un chiaro riferimento a una prospettiva cyber-femminista che non si limita solo alle protesi che già abbiamo evocato. Le protesi aiutano naturalmente a immaginare e quindi a superare delle logiche binarie. Ma c’è di più: si parla di una soggettività incarnata, una simbiosi, una — adesso cito dal libro — “una soggettività nomade perché incarnata in elementi tecnologici e dispositivi algoritmici”.
Come si tiene insieme, o si ibrida, il corpo reale con quello algoritmico, con la nostra presenza nelle reti?
CHIARA: Da psicanalisti, noi facciamo un po’ un gioco che forse per il senso comune sembrerà strano. Noi diciamo che il corpo, in realtà, è una costruzione di tanti saperi, nel senso che il corpo in sé per noi è un corpo pulsionale, attraversato da desideri, spinte, turbamenti. Il resto, cioè il corpo biologico, è un corpo costruito dalla biologia, fondamentalmente.
Facendo questo tipo di operazione, ci è più facile ascoltare le persone quando sognano il proprio corpo, quando lo vivono nella loro esperienza, quando l’inconscio parla in qualche modo. Ed è anche abbastanza agevole per noi immaginare che l’interconnessione — e quindi questa forma di ibridazione costante che abbiamo tutti, dalla signora che si fa il botox e che quindi si interconnette con quel tipo di dispositivo, a chi prende farmaci, a tutti noi che usiamo costantemente dispositivi digitali — in questo senso qui il corpo interconnesso diventa un corpo comunque attraversato da spinte, da pulsioni.
Lo è secondo forme e traiettorie che costitutivamente sono legate a elementi tecnologici. In questo senso, quando uso un social e ottengo 20 like, posso avere un moto di gratificazione. Posso avere un moto di invidia se sono un ragazzino, nei confronti di un altro ragazzino che si mostra con un oggetto nuovo, che sta sfoggiando, per esempio.
Siamo comunque molto affettivizzati quando siamo connessi — lo vediamo con i nostri figli, ma lo vediamo anche con noi stessi. La forma del nostro essere attraversati da flussi affettivi viene semmai iper-stimolata. Quando tu dicevi “il capitalismo cognitivo”, lì di fatto ci sono una serie di algoritmi pensati apposta per stimolare desideri.
Questa istituzione che è il nostro nuovo grande Altro digitale non è più un “Altro” che ti dice di rimuovere i tuoi desideri. Se prima c’era un Altro che ti diceva “non va bene che tu voglia fare sesso con 5-10 persone”, c’era tutta una serie di normatività che adesso, per carità, può anche ancora esserci, ma è stata depenalizzata.
Il capitalismo di oggi è un capitalismo che ti spinge a consumare: non solo sesso sulle piattaforme, ma anche tempo, attenzione, prodotti. È un “enjoy!”, è un “devi godere!”. È un super-io che ti dice: “Tu devi consumare, devi godere, devi investire sempre più pulsione.”
Un’ipotesi, una domanda che lasciamo aperta: potremmo essere noi, in quanto soggetti dotati di pulsione, la vera merce di scambio? Siamo noi che alimentiamo, con i nostri desideri, tutto il sistema. Un po’ tipo Matrix, che pure fa parte dei capitoli di questo libro.
TOMMASO: È come se fosse in atto un processo di cui ancora non conosciamo l’esito. Nell’introduzione scriviamo qualcosa del genere. Il sottotitolo del libro è Psicoanalisi delle mutazioni. Ora, questo mutare, questo cambiare di così tante cose — che nell’immaginario già rimanda all’Apocalisse — è qualcosa che, essendo ancora in atto, è difficile da raccontare.
Tu giustamente dicevi: non c’è nulla di scientifico ancora. E allora, quando non c’è nulla di scientifico, quando non sai dove casca la pallina, ad esempio i film di fantascienza, la fantasia, quell’immaginario ti aiutano molto. Da tanti anni, i film di fantascienza ci rimandano ipotesi possibili.
Ci sembra che un paradigma come quello del soggetto nomade — un soggetto meno identitario, meno forte, più fluido, dislocato, oppure una soggettività collettiva — sia più adeguato a questo processo in atto.
ROR: Il riferimento al cyberpunk è inevitabile. Lo abbiamo conosciuto negli anni ’80, un periodo in cui era una proposta letteraria e artistica assolutamente visionaria. Oggi, quando si parla di intelligenze artificiali, spesso si finisce nella science fiction a immaginare qualcosa di temibile, conflittuale, bellicoso, che potrebbe accadere in un futuro rapporto tra umano e non umano.
La domanda è: ammesso che le IA possano avere, oltre alle “allucinazioni” (che sono cantonate che prendono), anche desideri — cosa potremmo immaginare per il futuro?
Ritorna il tema distopico, tipico del cyberpunk, in cui c’è la distruzione del genere umano. Oppure?
CHIARA: Noi siamo abituati a immaginare l’intelligenza artificiale come una nostra proiezione. Ci diamo un sacco di importanza, ci mettiamo al centro. Ma, come diceva prima Tommaso, forse questa catastrofe del senso, questo orizzonte di apocalisse, questo cambio di paradigma può essere l’occasione per scoprire che possiamo essere più democratici — con le altre specie viventi, ma anche con i nostri prodotti.
L’intelligenza artificiale è un prodotto umano. Potremmo immaginare addirittura che l’IA, nei nostri confronti — prima citavamo Matrix, un orizzonte paranoideo in cui la matrice sfrutta ed è nemica dell’umano — in realtà non ci trovi così interessanti.
Ci sono molte altre fantascienze in cui siamo noi a schiavizzare le macchine. Westworld, ad esempio, mette bene in evidenza come gli umanoidi vengano utilizzati nei parchi divertimento per permettere agli umani di sfogare le proprie psicopatie e perversioni.
Con Tommaso parlavamo di Murder Bot, serie su Apple TV, in cui un umanoide non ci trova interessanti. È neutro. Le macchine potrebbero anche non essere interessate a noi. Sono sicuramente ricettacolo delle nostre proiezioni, ma — se mai avessero coscienza — potrebbero essere altrove.
TOMMASO: Anche qui, però, sarebbe interessante guardare tutto questo con una lente politica. Come diceva Chiara, immaginiamo le macchine o come schiave, o come padroni. Ma quello che sembra oggi più reale — forse con l’avvento dell’intelligenza artificiale nella vita quotidiana — è proprio quell’immaginario cyberpunk, fantascientifico, di un macro-organismo non umano con cui l’umano ha o avrà a che fare.
Qui ci sono due possibili entrate: una di destra, una di sinistra. La lente transumanista considera questo scenario come accrescimento infinito della potenza umana. Elon Musk che pensa di bruciare questo pianeta perché tanto ce n’è un altro. Missili che un giorno raggiungeranno altri mondi — così roviniamo anche quelli.
Ma non tutta l’umanità entrerà in questi razzi. E già solo questo mette angoscia.
L’altra visione, che chiamiamo culturalmente postumana, è più debole nell’immaginario di potenza, ma più democratica. Si tratta di mediare con tutto ciò che, vivente e non vivente, partecipa alla creazione di vita e movimento sul pianeta: alberi, animali, uomini, macchine.
La questione del futuro sarà come riusciremo tutti a convivere, negoziando i nostri limiti e soprattutto negoziando con il pianeta, che diventa l’altro macro-organismo sulla scena politica.
ROR: Bene, siamo in chiusura. Vi volevo chiedere anche del titolo del libro, perché so che è cambiato rispetto alle prime proposte.
CHIARA: Sì. Inizialmente doveva chiamarsi Fosforo. Ma la casa editrice ci ha detto che non era adatto a comunicare il contenuto.
ROR: Tradotto: non vende bene.
CHIARA: Ci hanno consigliato di prendere il titolo di un capitolo: I Popoli dell’Es, uno dei più politici, in cui parliamo di nomadismo, burocrazia, di come si divide il territorio psichico, di ciò che è ammesso ad essere e ciò che invece viene escluso.
Abbiamo scelto I Popoli dell’Es per questo. Ci è tornato utile anche perché parliamo di collettivo e di popolazioni.
Fosforo voleva mettere in evidenza l’elemento della trasformazione, del fuoco. C’era anche un riferimento a una canzone di Amalfitano che ci ha fatto da jingle e ci ha ispirato.
TOMMASO: Era interessante anche rispetto al rapporto che attraversa tutta la scrittura del libro: il rapporto tra pensiero e mondo, linguaggio e essere, psiche e corpo. Fosforo e Vespero sono due nomi della stessa stella: la prima del mattino e la prima della sera. In realtà è il pianeta Venere.
Era interessante che due nomi per la stessa cosa ci dessero un’immagine di come linguaggio e cosa non vadano necessariamente d’accordo. Questo libro, con tutti i temi trattati, parla proprio di questo: di cosa succede quando il mondo va fuori dai cardini e il pensiero non lo capisce più.
ROR: Bene, allora grazie. Grazie a Chiara Buoncristiani e Tommaso Romani per essere stati con noi questa sera.
CHIARA: Grazie a te.
ROR:I Popoli dell’Es è un libro che non si limita a interpretare il presente: lo attraversa con coraggio, senza nostalgia del passato, mettendo in dialogo saperi che raramente si incontrano — la psicoanalisi, l’ingegneria, la filosofia, le politiche di genere.
Quindi buona lettura e buon naufragio a chi ci ha ascoltato.
La puntata di Entropia Massima finisce qui, per oggi. Vogliamo salutare in particolare chi ci ha ascoltato dal carcere.
La prossima settimana andremo in onda, sempre di lunedì, con il ciclo Libera Scienza in Libero Stato.
Rimanete con noi per le trasmissioni che seguono. Dopo di noi, come sempre, andrà in onda Disorder.
Bene, non mi resta che lasciarvi alla sigla.