Trascrizione integrale
Entropia Massima – Intelligenza Artificiale e Lavoro

Parte 1  [Da 00:00 a 18:56] VOCE 1: Oggi parliamo di intelligenza artificiale, ciclo tecnologico di entropia massima, “Estrattivismo dei dati”, come sa chi ci ascolta abitualmente. Lo faremo in modo un po’ diverso dal solito: non ci concentreremo sulle meraviglie tecnologiche, né sulle paure apocalittiche. Parleremo invece di lavoro.

La puntata di oggi va in onda in differita il 9 giugno, subito dopo il referendum, ma è stata registrata qualche giorno prima. Non conosciamo ancora l’esito delle urne, ma forse una cosa possiamo dirla: i temi proposti al voto sono senz’altro rilevanti, ma probabilmente non colgono davvero il cuore delle grandi questioni che oggi agitano il mondo del lavoro in relazione all’intelligenza artificiale.

Il dramma del nostro tempo è che il lavoro non scompare, ma si trasforma. E molto spesso si trasforma in lavoro sempre più frammentato, precario, isolato, meno qualificato. È un lavoro che non vediamo, che alimenta gli algoritmi, che modera i contenuti sui social, che addestra l’intelligenza artificiale, che consegna cibo e pacchi. Un lavoro che spesso si cela dietro l’illusione dell’automazione: dietro ogni algoritmo, ogni chatbot, ogni app che usiamo ogni giorno, c’è un lavoro nascosto, mal pagato, invisibile, ma fondamentale. Come scopriremo, l’automazione non elimina il lavoro umano: semplicemente lo sposta, lo frantuma, lo nasconde.

Il nostro ospite di oggi ha dedicato anni a seguire le tracce di questo lavoro fantasma, viaggiando in tutto il mondo e parlando con i protagonisti silenziosi della nuova economia digitale. È un piacere avere ancora con noi Antonio Casilli.

VOCE 2: Grazie, buongiorno.

VOCE 1: Antonio Casilli è sociologo e professore all’Institut Polytechnique de Paris, considerato uno dei massimi esperti internazionali di lavoro digitale, automazione e piattaforme. Ha fondato il laboratorio Deep Lab, con cui ha condotto ricerche in Europa, Africa e America Latina sulle forme emergenti di sfruttamento nell’economia dei dati. È autore di libri importanti come “On attendons les robots” (uscito in Italia come “Schiavi del click”) e oggi è con noi per raccontarci il suo ultimo lavoro, “Waiting for Robots. The Hidden Hands of Automation”, appena pubblicato dalla University of Chicago Press: un libro che smonta pezzo per pezzo il mito dell’intelligenza artificiale come tecnologia autonoma e ci mostra invece le mani umane che ne rendono possibile il funzionamento.
Allora Antonio, cominciamo a parlare della geografia della fatica digitale, questa catena globale di lavoro digitale che emerge dal tuo libro. Ci sono molte connessioni tra chi lavora per pochi centesimi su piattaforme come Amazon Mechanical Turk e gli utenti, quindi anche noi, che produciamo dati spesso inconsapevolmente. Come si intrecciano questi due livelli di sfruttamento?

VOCE 2: Si intrecciano in una maniera molto subdola e quotidiana per noi. L’esempio che tutti hanno in mente, almeno indirettamente, è ChatGPT. È un esempio di intelligenza artificiale detta di nuova generazione, le cosiddette intelligenze artificiali generative, o più tecnicamente grandi modelli di linguaggio. Sono modelli che sembrano avere performance incredibili, a un passo dal realizzare il sogno dell’automazione completa, o addirittura dell’intelligenza artificiale generale.
Il problema è che ChatGPT, lanciato nel novembre 2022, in realtà è poco più che un chatbot, un software come altri, che però ha bisogno di un numero impressionante di lavoratori che l’hanno pre-addestrato. Il nome stesso lo dice: GPT significa Pre-Trained – pre-addestrato. Nell’acronimo è già scritto che qualcuno deve insegnare a questo modello a produrre testo, immagini, video. Tutti hanno visto passare online immagini di figure storiche trasformate in cartoni animati di Miyazaki: sembrano spontanee, automatiche, ma in realtà hanno bisogno di lavoro di pre-addestramento.
Ma questo lavoro non è quello degli ingegneri o dei data scientist delle grandi aziende, spesso ben pagati e assunti nei luoghi centrali dell’automazione. Chi ha pre-addestrato ChatGPT sono operai dei dati: veri e propri sottoproletari digitali, spesso reclutati senza nemmeno un contratto stabile, con lavori a cottimo, informali. Queste persone realizzano piccoli task: trascrivere un testo, tradurre estratti, ascoltare e riprodurre suoni, e così via. Bisogna insegnare alla macchina a riprodurre processi cognitivi umani: questa è l’intelligenza artificiale oggi.
Uno potrebbe pensare che, una volta pre-addestrato, il lavoro sia finito e abbiamo raggiunto l’automazione completa. Purtroppo non è così. Le mie inchieste, come quelle di molti altri ricercatori, mostrano che sempre più persone nel mondo vengono reclutate per questo tipo di lavoro, e la situazione non è migliorata dopo il lancio di ChatGPT, anzi.
Qualche mese dopo il lancio, la rivista Time pubblicò un’inchiesta che rivelava come centinaia di persone in Kenya fossero impiegate nella moderazione, ovvero nella verifica che ChatGPT non producesse risultati illegali o allucinati. Il lavoro di addestramento non finisce mai: bisogna continuamente ri-addestrare questi modelli, anche solo per aggiornarli su nuove lingue o per motivi commerciali.
Per questi motivi, le aziende affidano la maggior parte di questo lavoro a persone pagate pochissimo. Ad esempio, in Madagascar abbiamo intervistato lavoratori che guadagnano l’equivalente di 90-110 euro al mese, che non bastano nemmeno lì. In Kenya, qualcuno arriva a 400 euro, ma vivere a Nairobi è molto costoso. In Venezuela, durante il Covid, abbiamo riscontrato salari di pochi dollari al mese, pagati in una moneta – il Bolivar – soggetta a continua svalutazione.
Questo lavoro viene svolto attraverso grandi piattaforme internazionali, non solo Amazon Mechanical Turk ma anche Outlier, Remote Task, Scale, Appen, e molte altre nate soprattutto dopo il Covid. Queste piattaforme offrono a molti, soprattutto nei Paesi del Sud del mondo, accesso a pagamenti in dollari, ma rimangono salari da fame, che non permettono di vivere, di pensare a una carriera, o di mantenere una famiglia.
Il divario rispetto ai salari europei è enorme: qui, un operaio dei dati può arrivare a 12-15 euro all’ora, ma si tratta di poche eccezioni. Nel Sud del mondo, spesso si viene pagati meno di un centesimo per ogni task svolto. La domanda provocatoria è: che differenza c’è tra chi a Caracas è pagato 0,01 centesimi per produrre dati e chi li produce gratis? In realtà, facciamo tutti parte della stessa catena di produzione.
Quando chiediamo qualcosa a ChatGPT e poi mettiamo un pollice su o giù sul risultato, stiamo facendo lavoro di addestramento postumo: reinforcement learning, cioè apprendimento per rinforzo. Questo lavoro non è pagato, anzi spesso paghiamo un abbonamento per usare questi servizi e fornire gratuitamente feedback che migliorano i modelli.
Il lavoro gratuito nei paesi ricchi e quello quasi gratuito nei paesi poveri sono due facce della stessa medaglia. Le stime sul numero di lavoratori coinvolti sono impressionanti: secondo colleghi di Oxford, nel 2021 erano oltre 160 milioni. Studi più recenti della Banca Mondiale arrivano fino a 435 milioni, cioè il 12% della forza lavoro mondiale. Anche se queste cifre vanno prese con cautela, indicano una tendenza chiara: dopo il Covid e con il boom dell’intelligenza artificiale, sempre più persone sono messe al lavoro per addestrare, produrre, filtrare, annotare dati.
Quindi, altro che fine del lavoro: sempre più persone lavorano, solo che sono lontane e invisibili. In Madagascar, le puoi vedere nei cybercaffè, a casa o per strada, ma nel Nord del mondo restano del tutto fuori dal nostro sguardo, anche se fondamentali per il funzionamento delle tecnologie che usiamo ogni giorno.
[MUSICA]
Whitney’s Playland – Long Rehearsal
Parte 2  [Da 20:32 a 34:24] VOCE 1: Torniamo con Antonio Casilli a parlare del mito dell’automazione e del racconto dominante su intelligenza artificiale e lavoro. Antonio, nel tuo libro affermi che l’intelligenza artificiale non elimina il lavoro umano, ma lo nasconde. Cosa significa esattamente “lavoro invisibile” nel contesto dell’IA?

VOCE 2: Significa prima di tutto raccontare un po’ di retrobottega della produzione di un libro. Questo tema mi accompagna da quasi dieci anni e ogni volta che pubblico, i miei editori hanno bisogno che spieghi se questo lavoro è invisibile, nascosto, o – come insisto io – invisibilizzato, cioè reso invisibile a forza.
Spesso, semplicemente, il lavoro viene realizzato in Paesi lontani da noi. Gli operai dei dati non li vediamo: in Italia, in Europa, nel Nord del mondo, restano fuori dal nostro campo visivo. Se pensiamo ai rider di Uber o Deliveroo, li vediamo in strada, riconoscibili dalle divise. Invece, chi lavora per Amazon o altre piattaforme può essere ovunque, ma resta invisibile.
In più, c’è una repressione della parola operaia: molte di queste persone, anche se non hanno un contratto vero, firmano clausole di confidenzialità molto severe. Possono rischiare persino il permesso di soggiorno o pene severe se parlano del loro lavoro. Alcuni migrano da un Paese all’altro per svolgerlo, spesso in condizioni di precarietà estrema.
Questo è un lavoro nuovo, reso invisibile dalla retorica dell’automazione, e sarà sempre più necessario in futuro. Più produciamo sistemi di intelligenza artificiale, più avranno bisogno di lavoro umano. È controintuitivo, perché siamo abituati a pensare che la tecnologia serva a eliminare lavoro umano – una lezione che viene da Marx, Ricardo, gli economisti di due secoli fa. Ma questa “labor saving technology” non si applica del tutto all’intelligenza artificiale, perché le mansioni cognitive sono molto più difficili da automatizzare rispetto a quelle fisiche.
Automatizzare una mansione fisica è spesso possibile; una cognitiva molto meno. Per esempio, aggiornare una lingua o il senso comune non si può fare senza l’intervento umano, perché dipende dalla cultura e dall’evoluzione sociale. Le macchine imparano, ma solo dopo miliardi di esempi, con processi lunghi e costosi che non si possono eliminare.
Perciò, nei prossimi anni e decenni, avremo sempre bisogno di lavoro umano per far funzionare questi sistemi, anche se i salariati “visibili” diminuiranno. In realtà, i lavoratori con contratti formali vengono spesso sostituiti non da macchine, ma da altri lavoratori meno protetti e meno visibili: i cottimisti digitali.
C’è anche una forte dimensione storica e simbolica. Racconto spesso l’aneddoto dei “dumb waiters”: nei secoli scorsi, in America, i proprietari di schiavi camuffavano il lavoro degli schiavi facendo apparire il cibo attraverso sistemi meccanici che nascondevano il lavoro umano. Questo meccanismo ricorda molto ciò che accade oggi con l’automazione: il lavoro resta, ma viene nascosto e reso invisibile, spesso ancorato a logiche di sfruttamento e colonialismo.
Naturalmente, non si tratta di schiavitù in senso stretto: chi lavora come operaio dei dati spesso lo sceglie perché non ha alternative, ma resta un fenomeno che si inscrive nella storia generale del lavoro salariato, che dovrebbe essere protetto e tutelato, ma oggi non lo è.
[MUSICA]
Fortunato Durutti Marinetti - Full Of Fire
Parte 3  [Da 40:03 a 58:34] VOCE 1: Nella terza parte entriamo nelle prospettive politiche. Da quello che ci hai raccontato, appare evidente la necessità di riorganizzare il lavoro in modo più giusto. Quali spazi vedi per questo?

VOCE 2: Ce ne sono e spero di contribuire a crearne di più. Una parte della nostra attività a Deep Lab è proprio facilitare il dialogo tra realtà sindacali, ONG, associazioni e istituzioni, per sviluppare sia una coscienza di classe tra questi lavoratori, sia soluzioni concrete.
Ti porto qualche esempio: esistono molte iniziative sindacali dal basso, organizzazioni che emergono un po’ ovunque e che a volte si manifestano in strada, come in Kenya, dove ci sono almeno tre diversi sindacati di lavoratori dei dati che addestrano sistemi per grandi aziende come OpenAI, Meta, Microsoft, Amazon. In Sud America si lavora molto per la Spagna o il Portogallo, mentre in altri contesti nascono nuove forme di sindacalizzazione.
Noi collaboriamo da anni con questi sindacati. Quest’anno, dal 10 al 12 settembre 2025, organizziamo a Bologna una conferenza internazionale dell’International Network on Digital Labor (INDL), dove inviteremo anche lavoratori dei dati del Kenya, per un confronto con i sindacati italiani e internazionali.
Anche i sindacati tradizionali si stanno muovendo: la Germania lavora su questi temi dal 2016, l’Italia un po’ meno, spesso focalizzandosi più sul lavoro autonomo che su queste nuove forme di precarietà.
La tutela del lavoro digitale spesso passa dai tribunali, tramite ricorsi collettivi o class action, per far riconoscere i diritti o riqualificare questi lavoratori come salariati. In alcuni Paesi, come la Francia, ci sono stati tentativi di far assumere piattaforme centinaia di migliaia di lavoratori, anche se non sempre con successo. In Brasile, invece, una piattaforma è stata condannata a regolarizzare e pagare gli arretrati ai propri lavoratori.
Le aziende provano ad autoregolamentarsi con iniziative come la “Partnership for AI” di Google, ma spesso si tratta più di strategie per evitare regolamentazioni stringenti che di vere soluzioni.
Tra le proposte più innovative ci sono le cooperative di intelligenza artificiale: sistemi in cui la proprietà dei dati e degli algoritmi è detenuta dai lavoratori stessi, come estensione del cooperativismo di piattaforma.

VOCE 1: Arrivando al tema del reddito universale, spesso proposto come soluzione per chi non lavora più. Tuttavia, oggi il lavoro c’è ancora, è solo invisibilizzato e sottopagato. Quindi il reddito universale dovrebbe servire anche ad accompagnare chi svolge questi lavori nascosti, compensando il surplus che le grandi aziende realizzano grazie a questa forza lavoro mondiale.

VOCE 2: Questa proposta non è nuova: già nel 1999 avevo pubblicato un articolo sull’uso della moneta elettronica per pagare un reddito di cittadinanza digitale. L’idea di fondo è che c’è continuità tra chi viene pagato pochissimo nel Sud del mondo e chi lavora gratuitamente in tutto il mondo come utente/consumatore. È necessario prevedere una forma di redistribuzione che superi il solo salario.
La parola chiave è tassazione delle piattaforme e redistribuzione del valore generato da tutti, per arrivare a un reddito digitale universale (RDU). La storia del reddito universale è lunga e complessa, nata in una prospettiva post-lavorista, ma oggi spesso distorta o manipolata anche da chi ha interesse a non cambiare nulla, come i grandi imprenditori della tecnologia.
Il vero punto è che tutti i lavori si stanno digitalizzando e dataficando, spesso tramite piattaforme che producono soluzioni di intelligenza artificiale. Lo abbiamo visto con il boom dello smart working, ma anche nelle attività quotidiane su Teams, Zoom, Gmail, YouTube, eccetera: tutto viene registrato, trasformato e analizzato dall’intelligenza artificiale usando i nostri dati.
Quindi, il reddito universale digitale serve a compensare il valore sociale prodotto sia dai milioni di persone che lavorano come operai dei dati, sia dagli utenti-consumatori di tutto il mondo. È una questione di giustizia sociale, redistribuzione e riconoscimento a livello nazionale e internazionale di questo lavoro.

VOCE 1: Ringraziamo Antonio Casilli per questo intervento.
In genere, Antonio ci raggiunge da remoto da Parigi, ma questa volta lo abbiamo incontrato a Roma, al Centro per la Riforma dello Stato, con cui collabora dal 2015, quando ancora il suo libro “Waiting for Robots” era solo un’idea. Gli dobbiamo un ringraziamento anche per aver contribuito a far nascere questa riflessione.
Noi abbiamo approfittato di questa occasione per incontrarci dal vivo, anche se l’intervista è stata registrata qualche giorno prima della messa in onda.
Entropia Massima finisce qui.
Salutiamo tutti e tutte, in particolare chi ci ascolta dal carcere.
Vi lasciamo ai prossimi programmi del lunedì sera, e vi diamo appuntamento a lunedì prossimo con Entropia Massima.